TRIBUNALE di GENOVA
Sentenza pronunciata il 24 settembre 2005 e depositata in Cancelleria il 23 novembre 2005

omissis
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 6 ed il 7.12.2001.i coniugi S.L. e M.F., in proprio e nella qualità di legali rappresentanti del figlio minore M., convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Genova l'Azienda San Martino di Genova ed il Prof. F.M. esponendo che il giorno 7.12.1996, alle ore 2.40, la signora M.F., al termine di una regolare gravidanza, si era ricoverata presso l'Ospedale San Martino di Genova nell'Istituto di Ginecologia ed Ostetricia, ove alle ore 11.10, a seguito di applicazione di ventosa ostetrica, era nato il figlio M., in condizioni di asfissia neonatale grave con esiti di crisi convulsive, tetraparesi spastica e grave cerebropatia. Gli attori deducevano che tale gravissima affezione era stata causata dalla carente ed inadeguata assistenza prestata dal personale medico-sanitario dell'Ospedale San Martino e dal comportamento colposo del Prof. M., sanitario reperibile, chiamato alle ore 9.30 dalla ginecologa di turno, Dott.ssa M., per valutare la necessità di espletare il parto mediante taglio cesareo, data la mancata progressione del feto, che dalle ore 8.20 si presentava in posizione cefalica fissa allo stretto superiore. Deducevano infatti gli attori che il convenuto aveva deciso di disporre dapprima infusione con ossitocina ed alle ore 10,50, constatato l'arresto delle progressioni del feto alla parte media dello scavo, di applicare la ventosa ostetrica, ordinando alla Dott.ssa M. l'esecuzione di tale manovra, osservando che probabilmente un tempestivo taglio cesareo avrebbe evitato la sofferenza neonatale del bambino. Chiedevano pertanto la condanna dei convenuti in solido al risarcimento di tutti i danni subiti, patrimoniali e non patrimoniali, tanto dal minore direttamente quanto dai genitori. Con comparsa di costituzione e risposta depositata alla prima udienza del 26.2.2002 si costituiva in giudizio l'Azienda Ospedale San Martino, contestando la fondatezza della domanda attorea, di cui chiedeva l'integrale rigetto, osservando in particolare l'insussistenza del nesso eziologico tra le modalità del parto e la cerebropatia subita dal neonato, sostenendo che questa poteva essere ben sorta durante la gravidanza e misconosciuta. Costituitosi con comparsa di risposta alla medesima udienza, il Prof. M. contestava a sua volta la fondatezza delle domande attoree rilevando in particolare: che dai dati desumibili dalla cartella clinica non emergeva alcuna ragione idonea a determinare la necessità del taglio cesareo, né l'esistenza nel corso del parto di indici di sofferenza fetale, esistendo, bensì, elementi dimostrativi del fatto che l'andamento del parto fu, quanto alle condizioni del feto, del tutto regolare fino al momento espulsivo finale; che, in particolare, il ritmo cardiaco fu sempre regolare e che nei tempi precedenti si era verificato un evento naturale, imprevedibile, indiagnosticabile e purtroppo incurabile, e cioè un giro molto stretto di cordone ombelicale intorno al collo, causa vera dell'encefalopatia riscontrata al momento della nascita, dovuta a grave e prolungata stasi venosa cerebrale. Il Prof. M. precisava inoltre il ruolo da lui svolto in qualità di sanitario reperibile durante il parto dell'attrice, affermando di essere stato chiamato soltanto ad esprimere pareri, senza assumere la responsabilità della cura e/o dell'assistenza alla paziente sicché doveva escludersi che egli avesse ordinato alcunché alla Dott.ssa M. o che avesse preso autonomamente decisioni od eseguito operazioni od interventi di alcun genere. La causa veniva quindi istruita con il libero interrogatorio delle parti, le produzioni documentali delle stesse ed il licenziamento di C.T.U. medico-legale avente ad oggetto l'accertamento delle cause, della natura e dell'entità delle lesioni riportate dal piccolo M. e per la verifica della adeguatezza dell'assistenza sanitaria prestata alla signora P. In data 24.3.2003 il minore M.L. decedeva presso l'Istituto G.G., ove era stato ricoverato il 12.3.2003 per insufficienza respiratoria sicché i genitori S.L. e M.F., in qualità di suoi eredi, si costituivano volontariamente per la prosecuzione del giudizio all'udienza del 4.6.2003. Infine, all'udienza del 20.5.2005 i procuratori delle parti precisavano le conclusioni come in epigrafe riportate e, previa la concessione dei termini di rito per il deposito delle comparse conclusionali e delle note di replica, questo Giudice tratteneva la causa in decisione.

Motivi della decisione
La domanda attorea è fondata e merita pertanto accoglimento, seppur nei limiti di cui al dispositivo in punto quantum debeatur. Al fine della decisione della presente controversia appare opportuno ricordare, seppur in estrema sintesi, le ultime evoluzioni della giurisprudenza civile sviluppatesi nella materia che è oggi all'esame di questo Tribunale e cioè quella della c.d. responsabilità medica.
In primo luogo va rilevato che se la Suprema Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità dell'ente ospedaliero nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cfr. a partire da Corte Cass., 21.12.1978, n. 6141 fino ad arrivare a Corte Cass. 28.5.2004, n. 10297 e Corte Cass., 23.9.2004, n. 19133), fondamentale è stata la decisione della Suprema Corte del 22.1.1989, n. 589, affermativa del principio secondo il quale anche l'obbligazione del medico dipendente dell'ente ospedaliero nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale. Se dunque può ritenersi come principio ormai consolidato che la responsabilità sia del medico che dell'ente ospedaliero per inesatto inadempimento della prestazione ha natura contrattuale, ne consegue che trovano applicazione il regime proprio di tale tipo di responsabilità quanto alla ripartizione dell'onere della prova, ai termini di prescrizione ed ai principi delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale relativamente alla diligenza e al grado della colpa.
Quel che si ritiene di porre in evidenza in questa sede, perché maggiormente pertinente al caso in esame, è che l'orientamento della giurisprudenza pressoché consolidato sino al 2000 stabiliva che quando l'intervento da cui era derivato il danno non era di difficile esecuzione, la dimostrazione da parte del paziente dell'aggravamento della sua situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie era idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all'inadeguata o negligente prestazione, spettando quindi all'obbligato fornire la prova che la prestazione professionale fosse stata eseguita in modo diligente e che questi esiti peggiorativi fossero stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (Corte Cass., 21.1.1978, n. 6141; Corte Cass., 16.11.1988, n. 6220).
Più specificamente, l'onere della prova era ripartito tra le parti nel senso che spettava al medico provare che il caso era di particolare difficoltà ed al paziente quali fossero state le modalità di esecuzione inidonee ovvero a questi spettava provare che l'intervento era di facile esecuzione ed al medico che l'insuccesso non fosse dipeso da suo difetto di diligenza (Corte Cass., 16.11.1988, n. 6220; Corte Cass., 19.5.1999, n. 4852). Tale lettura è stata ulteriormente modificata dal principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la nota sentenza resa in data 30.10.2001, n. 13533 in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto inadempimento. Ed invero, le Sezioni Unite hanno enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento, deve dare la prova della fonte negoziale della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.
Orbene, applicando tale principio all'onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico, la Suprema Corte di recente (V. Corte Cass., sez. III, 28.5.2004, n. 10297, in Foro it. Settembre 2005, I, 2479) ha affermato che "il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto inadempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento".
Più precisamente "consistendo l'obbligazione professionale in un'obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento, restando a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che questi esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile". In altre parole, può ormai concludersi - in coerenza peraltro con quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o l'altra parte di offrirla - che in tema di responsabilità civile nell'ambito dell'attività medico-chirurgica il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e/o il "contatto" con il professionista e allegare l'inadempimento di quest'ultimo, restando a carico dell'obbligato - il sanitario ovvero la struttura presso cui egli opera - la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto o imprevedibile.
Ciò premesso e venendo ora all'esame del caso per cui è giudizio - e nell'anticipare una parte del ragionamento finale - questo giudicante non può che far proprie e condividere le conclusioni cui sono pervenuti i consulenti tecnici d'ufficio il contenuto della cui relazione, espresso con motivazione adeguata, sorretta da argomentazioni coerenti e convincenti, oltre che prive di incoerenze narrative, deve intendersi integralmente richiamato in questa sede.
In effetti, secondo lo schema sopra esposto fondato sulla natura contrattuale dell'obbligazione dedotta in giudizio, a fronte del predicato inadempimento da parte degli attori - carente ed inadeguata assistenza durante il parto della signora M.F., comportamento casualmente connesso alla gravissima encefalopatia riportata dal piccolo M. alla nascita - incombeva su parte convenuta la dimostrazione di aver diligentemente adempiuto alla propria prestazione professionale, ovvero che l'evento per cui è causa non è dipeso da propria colpa. E' invece fin d'ora agevole rilevare come nel caso di specie non solo i convenuti non hanno fornito prova alcuna della propria assenza di colpa, ma che, anzi, le risultanze dell'espletata C.T.U. forniscono un positivo riscontro all'esistenza della stessa.
Ed infatti, (lasciando al prosieguo l'esame della sussistenza della responsabilità del prof. M.) dall'espletata G.T.U. è emerso: - che l'andamento della gravidanza della signora F. fino al ricovero presso l'Ospedale San Martino era stato del tutto regolare, risultando corrette le valutazioni ematochimiche ed ecografiche, così come regolari i loro rispettivi parametri; - che durante il travaglio non era stata inoltre inizialmente rilevata alcuna difficoltà ed infatti la cardiotocografia - purtroppo l'unica, come si vedrà - effettuata all'ingresso era regolare e la dilatazione della bocca uterina procedeva regolarmente; - che alla fine di tale iniziale periodo si era rilevato un arresto della progressione del normale travaglio, (situazione invariata già segnalata alle ore 8.20 ed alle ore 9.30) sicché i medici a questo punto risultavano indecisi sul tipo di prosecuzione dell'assistenza, valutando, tra le ipotesi, quella indicata dalla Dott.ssa M. di ricorrere ad un taglio cesareo;
- alle ore 9,30 veniva contattato l'Aiuto reperibile Prof. M.; - non veniva segnalata in questa fase la situazione della dinamica uterina, cioè la validità e la regolarità delle contrazioni o meno né effettuata una valutazione cardiotocografica che comprenderebbe la dinamica uterina ed il battito cardiaco fetale;
- alle ore 10 veniva somministrata l'ossitocina (Syntocinon), senza indicazioni di dosi o di eventuale tracciato cardiotocografico da effettuare; - alle ore 10.50, dopo secondo consulto con il Prof. M., veniva applicata la ventosa ostetrica; - alle ore 11.10 nasceva il piccolo M., con indice di Apgar di 1 al primo minuto, di 4 al quinto minuto e di 4 al decimo minuto dopo intubazione endotracheale. Veniva annotato un giro di funicolo molto stretto attorno al collo e nella placenta si notava la presenza di numerosi infarti.
Orbene, nella cronistoria sopra descritta e ricostruita, i C.T.U. hanno osservato che la situazione ostetrica è stata correttamente valutata fino alle ore 9.30 ed infatti in tale momento le indicazioni al tipo di espletamento del parto potevano essere valide entrambe, cioè il ricorso al taglio cesareo o la prosecuzione per un tentativo di parto naturale: tutto ciò, però, hanno evidenziato da subito i periti, alla luce di una registrazione cardiotocografica che desse maggior informazioni sullo stato materno-fetale in quel momento. Anche la decisione di ricorrere ad un'infusione di ossitocina è stata corretta, poiché in questo caso risolve generalmente le situazioni di insufficiente spinta uterina: anche questa decisione, tuttavia, doveva essere associata ad una registrazione cardiotocografica, anche per evitare contrazioni eccessive per frequenza ed intensità oppure un dosaggio troppo basso che non dà una buona risposta uterina.
Al riguardo i consulenti hanno osservato che il dosaggio utilizzato ed il controllo della risposta al farmaco vanno monitorati mediante cardiotocografia anche per osservare eventuali problemi nel battito cardiaco fetale, uno degli indici utilizzati per la valutazione del benessere fetale: talora la presenza di giro di funicolo stretto al collo fetale, o ad altra parte del feto, durante movimenti del feto riproduce uno stimolo che si associa a decelerazioni (riduzione del battito cardiaco fetale) particolari che possono allertare l'equipe ostetrica. Queste decelerazioni, pur non rivestendo generalmente particolare importanza nel decorso del travaglio, possono dare una nozione in più ai medici per eventuali successive decisioni terapeutiche. Il parto con ventosa ostetrica è stato tecnicamente eseguito correttamente, tuttavia nulla è riportato in cartella clinica circa il battito cardiaco fetale la progressione delle contrazioni uterine: eventuali contrazioni insufficienti o assenti sarebbero stata una controindicazione all'utilizzo della ventosa ostetrica, la cui trazione viene fatta durante la contrazione e la concomitante spinta della partoriente. In effetti, il punto focale messo in luce dall'elaborato peritale è che se non è possibile esprimere nel caso concreto giudizi circa il grado percentuale di probabilità che l'adozione di mezzi diagnostici terapeutici più idonei avrebbero evitato il prodursi della patologia del piccolo M., è tuttavia altamente probabile che l'esecuzione di tracciati cardiotocografici, anche intermittenti, e sicuramente all'inizio di infusione di Syntocinon, avrebbe consentito di avere maggiori e più precisi elementi di giudizio sul benessere fetale in modo tale da poter attivare o programmare le successive scelte terapeutiche.
E tale omissione dei sanitari non va esente da un giudizio di colpa.
Per quanto concerne peraltro l'eventuale attribuzione del danno cerebrale al solo giro del funicolo molto stretto al collo, i C.T.U. hanno affermato che ciò potrebbe essere ammesso se fosse dimostrabile che durante l'infusione di Syntocinon non si sia verificata sofferenza fetale. Peraltro proprio la presenza del giro di funicolo attorno al collo durante i movimenti fetali produce uno stimolo che si associa a delle decelerazioni del battito cardiaco fetale particolari che possono allertare l'equipe ostetrica: tutto ciò sarebbe stato possibile solo a mezzo di cardiotocografia che non risulta essere stata effettuata. Da ultimo, i C.T.U. hanno osservato come la morte del piccolo M., avvenuta il 24.3.2003 per insufficienza respiratoria, sia da ritenersi ricollegabile al danno asfittico cerebrale neonatale e che quindi non vi è alcun dubbio sul rapporto di causalità tra la morte del piccolo M. e le gravissime lesioni cerebrali anossico-ischemiche da asfissia neonatale grave.
Nella situazione sopra descritta, caratterizzata peraltro dall'assenza di cause preesistenti alla fase del travaglio che possano aver determinato da sole o in concorrenza con il metodo di parto praticato le lesioni (e poi la morte) del piccolo M. e non avendo i convenuti fornito la prova della propria assenza di colpa ed essendo al contrario emersa l'omissione da parte degli stessi dell'esecuzione di tracciati cardiotocografici dall'inizio di infusione di ossitocina in poi, che avrebbero consentito con alto grado di probabilità di poter attivare le scelte terapeutiche più idonee al caso in esame, sussiste a pieno titolo in capo ai medesimi la responsabilità medica invocata dagli attori, la cui domanda in punto an debeatur merita pertanto accoglimento integrale. In altri termini, l'inadempimento dei sanitari convenuti consiste nel caso in esame nella mancata ricognizione di quei dati indefettibili per la scelta del metodo da seguire per il parto della signora F.: omissione che ha impedito qualsiasi valutazione sulla dinamica uterina, sul battito cardiaco fetale e, più in generale, sul benessere fetale durante il travaglio e, di conseguenza, l'adozione delle scelte terapeutiche più idonee al caso in esame.
Né può trovare applicazione nella specie l'esenzione da responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. presentando la prestazione sanitaria (de qua), sia nella fase del parto sia nella fase precedente ad essa, caratteri di ordinaria difficoltà e routinarietà. Né, ancora, sotto diverso profilo di analisi, l'incompletezza della cartella clinica, "nella sua totalità, con lacune non indifferenti soprattutto nel periodo più critico dalle ore 10.00 (inizio dell'infusione con Syntocin) e fino alle 10.50 quando il prof. M. decide di applicare la ventosa ostetrica così come indicato" può risolversi in danno degli attori e cioè di coloro che vantino un diritto in relazione alla prestazione sanitaria (Cfr. sul punto Corte Cass. 21.7.2003, n. 1316, in Foro it., 2003, I, 2970 ss.; Trib. Roma 20.1.2004, in Foro It., 2004, I, 918 ss.; Trib. Venezia 10.5.2004, in Danno e responsabilità 2005, n. 4, pg. 426 ss.) atteso che nella valutazione dell'esattezza della prestazione medica valore indiziante è attribuito alla corretta ed esaustiva compilazione della cartella clinica, con la conseguenza che le omissioni imputabili al medico nella redazione della stessa cartella clinica possono rilevare ai fini del nesso eziologico presunto.
Diversamente opinando, la prova della responsabilità del medico da omissione colposa, qual'è quella del caso in esame, sarebbe di fatto preclusa tutte le volte che, a causa della mancata annotazione nella cartella clinica dei rilievi e delle cure predisposte dal sanitario, non si possa escludere che l'evento dannoso sia originato da cause indipendenti dalla patologia accertata. Ultimo profilo di analisi per quanto attiene all'an debeatur da parte dei sanitari convenuti attiene alla posizione del convenuto prof. F.M. Come già ricordato, la difesa di quest'ultimo è incentrata sul fatto che egli, nella sua qualità di sanitario reperibile durante il parto dell'attrice, sarebbe stato chiamato dalla Dott.ssa M. soltanto due volte per un consulto, e cioè una prima volta alle ore 10, quando il feto si presentava in posizione cefalica fissa allo stretto superiore - ed in quel frangente suggerì la prosecuzione del parto naturale, con infusione di ossitocina - ed una seconda volta alle ore 10.50, - ed in quell'occasione suggerì l'utilizzo della ventosa ostetrica -, presenziando all'operazione fino al momento espulsivo, avvenuto alle ore 11.10, senza tuttavia assumere la responsabilità della cura e/o dell'assistenza alla paziente, tanto che espressioni che lo riguardavano contenute in cartella clinica (e che riferiscono alla sua persona la decisione dell'infusione con ossitocina e dell'applicazione della ventosa ostetrica nonché il successivo ordine alla Dott.ssa M. di applicarla) sarebbero state inserite a sua insaputa dalla Dott.ssa M., non avendo egli partecipato alla compilazione della medesima cartella clinica.

Orbene, va in primo luogo osservato al riguardo di quest'ultimo rilievo che le attestazioni contenute in cartella clinica relative alle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, in quanto esplicazione del potere certificativo e della natura pubblica dell'attività sanitaria hanno valore di atto pubblico e, come tali, fanno piena prova fino a querela di falso della provenienza della cartella e di tutta l'attività in essa menzionata. Querela che nella specie non è mai stata presentata. Inoltre, tutti i medici che prestano in qualche modo assistenza al paziente sono tenuti parimenti alla corretta compilazione, per quanto di propria competenza, della cartella clinica sicché deve ritenersi che anche il prof. M. doveva partecipare alla redazione della stessa o, comunque, era tenuto a controllarne la completezza ed il contenuto. Ancora. E' risultato dagli atti e dalla C.T.U. che l'organizzazione del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia del dicembre 1996 prevedeva, oltre ad un medico di guardia responsabile nel turno di lavoro dell'assistenza ostetrica del pronto soccorso ostetrico e della sala travaglio e della sala parto - ruolo rivestito nella specie dalla Dott.ssa M. -, un aiuto reperibile in grado di raggiungere il reparto in circa 20 minuti che veniva chiamato dal medico di guardia in caso di situazioni complesse o che comunque richiedevano in giudizio di persona più autorevole esperienza come appunto l'aiuto reperibile, ruolo rivestito dal prof. M.
Nella fattispecie, la chiamata del prof. M. era pienamente giustificata dall'arresto della progressione del normale travaglio constatata alle ore 9,30 dalla Dott.ssa M. la quale, ipotizzando la necessità di ricorrere ad un taglio cesareo, voleva appunto il parere e l'aiuto del Reperibile prof. M. Il Prof. M. è stato quindi chiamato dalla dott.ssa M., medico di guardia, proprio nella sua qualità di "Aiuto reperibile" e cioè di sanitario di autorevole esperienza, per fronteggiare la situazione complessa o valutare l'opportunità di un intervento chirurgico quale sarebbe stato il ricorso al parto cesareo. In ogni caso, anche a voler ammettere che l'intervento del convenuto si sia limitato ad un mero "parere" - il che, peraltro, appare poco compatibile con la presenza del prof. M. fino al momento espulsivo, ammessa dal medesimo in sede (solo) di note di replica - appare evidente che qualsiasi consulto, per andare esente da colpa, non poteva che essere preceduto dalla conoscenza di tutta una serie di dati essenziali circa la dinamica uterina ed il battito cardiaco fetale prima - in occasione del primo consulto e della infusione di ossitocina - e dal monitoraggio per l'assicurazione della piena conoscibilità dei predetti dati dopo l'infusione medesima e prima di assumere qualsiasi altra scelta terapeutica.
Non risulta invece che nel caso in esame detti pareri siano stati preceduti/accompagnati dalla raccolta di quei dati indefettibili, quali, giova ripeterlo, il battito cardiaco fetale che ben avrebbero potuto indirizzare, con alto grado di probabilità, alla scelta terapeutica più idonea al caso in esame. Per l'insieme delle considerazioni esposte si ritiene pertanto che anche il Prof. M. debba rispondere a pieno titolo ed in solido con l'Azienda convenuta in ordine alla domanda risarcitoria proposta dagli attori.
Da qui l'integrale accoglimento della domanda attorea in punto an debeatur. Accertata dunque la sussistenza del fatto illecito, integrante la fattispecie astratta di reato di cui all'art. 589 c.p., della colpa e del nesso causale tra condotta ed evento di danno, occorre procedere alle aestimationes dei danni lamentati rispettivamente dagli attori.
Occorre a questo punto distinguere i danni riportati dal piccolo M., oggi trasmissibili agli attori quali suoi eredi costituiti in giudizio per la prosecuzione del processo, essendo il piccolo venuto a mancare in corso di causa, da quelli subiti dagli attori in proprio. Ed allora, per quanto attiene al danno biologico permanente subito da M., applicando il criterio tabellare seguito da questa sezione e considerata l'invalidità del 100% accertata dalla Commissione di prima istanza di Genova in data 9.9.1999, la durata della vita media di un soggetto maschile secondo gli ultimi dati Istat, pari a 77 anni e gli anni in cui è rimasto in vita il piccolo M., il quantum è dato dal seguente calcolo proporzionale: Euro 650.690,50 (invalidità al 100% ad 1 anno di vita): 77 (durata media vita soggetto maschile) = X (la nostra incognita): 6 (durata della vita di M.). Ne consegue che X è uguale a Euro 650.690,50 x 6/77 e cioè è uguale a Euro 50.703,15.
Spetta quindi a titolo di danno biologico permanente la somma pari ad Euro 50.703,15.
Va inoltre riconosciuto il danno morale relativo ai giorni di ricoveri ospedalieri subiti da M., della durata complessiva di giorni 76, per un totale quindi pari ad Euro 2.884,2. Per il danno morale ed esistenziale subito dal minore, da ritenersi sussistente in re ipsa, in considerazione delle gravissime sofferenze che il piccolo M. ha dovuto sopportare nella sua pur breve vita e della totale sua compromissione di tutte le attività esplicative della persona, congruo appare liquidare la metà di quanto riconosciuto a titolo di danno biologico, e cioè Euro 25.351,57. Spetta pertanto agli attori a titolo di risarcimento danni iure ereditario la complessiva somma pari ad Euro 78.938,92. Per l'effettuazione del conteggio relativamente al quantum debeatur si è fatto ricorso alle tabelle dell'invalidità permanente elaborate con riferimento all'anno 2003 dal Tribunale di Milano, pubblicate sulla rivista "G." Supplemento mensile n. 7/2003, comprensive della rivalutazione monetaria intervenuta dal maggio 1996 fino all'1.1.2003.
E' pertanto dovuta, conformemente ai principi generali sui debiti di valore, la rivalutazione monetaria maturata dall'1.1.2003 fino all'odierna liquidazione del danno alla persona, da calcolarsi applicando gli indici ISTAT del costo della vita. Per il calcolo degli interessi compensativi, occorre applicare il criterio messo a punto nella nota sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 17.2.1995 n. 1712, secondo il quale gli interessi sui debiti di valore vanno calcolati sulla somma corrispondente al valore della somma al momento dell'illecito, via via rivalutata anno per anno sulla base dei noti indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. In applicazione di tale criterio, al fine del calcolo degli interessi, la somma capitale come sopra determinata deve essere previamente devalutata in base ai detti indici ISTAT dall'1.1.2003 fino alla data del sinistro e sulla stessa, progressivamente rivalutata anno per anno, devono calcolarsi gli interessi al tasso legale.
Per quanto attiene alla persona degli attori, cominciando dal richiesto danno morale ed esistenziale, ritiene questo Giudice di dover svolgere alcune precisazioni in punto riconoscimento di danno esistenziale. In effetti, va ricordato come nel 2003 il sistema dei danni non patrimoniali abbia in qualche modo voltato definitivamente pagina per effetto di una serie di decisioni della portata sicuramente "storica", le quali, in larga misura ispirate ed incentivate dal dibattito in corso sul danno esistenziale, hanno rivoluzionato, di fatto archiviandolo, il modello del danno non patrimoniale, fondato sulla netta contrapposizione tra due ambiti di disciplina ben distinti, l'art. 2043 c.c. (danno ingiusto) e l'art. 2059 c.c. (danno morale da reato subito). Il merito di tale nuova stagione del danno non patrimoniale è da attribuirsi indubbiamente alla Suprema Corte, la quale "in un disegno complessivo di razionalizzazione del sistema della responsabilità civile nell'ambito di un processo che mostra una condivisibile tendenza alla tutela dei valori della persona", consapevolmente ha ritenuto fosse ormai giunto il momento di superare la tradizionale lettura dell'art. 2059 c.c. ed in particolare di cancellare in via definitiva "l'evidente iniquità della risarcibilità del danno non patrimoniale alle ipotesi di reato" (Cfr. Corte Cass., sez. IV, 22.1.2004, n. 2050).
Infatti, dopo aver sconfessato il precedente consolidato orientamento contrario alla risarcibilità del danno morale/non patrimoniale nei casi di colpa presunta (sentenze nn. 7281/2003, 7282/2003 e 7283/2003) assestando quindi in primo duro colpo al requisito del reato quale criterio selettivo per il risarcimento del danno morale, la Corte di Cassazione, con due sentenze coeve, la n. 8827/2003 la n. 8828/2003 e, successivamente con la pronuncia n. 12124/2003 e la decisione n. 19057/2003 ha rivoluzionato il panorama dei danni non patrimoniali, ridisegnando alla radice l'art. 2059 c.c., "costituzionalizzando" a tuttotondo, l'interpretazione della norma in questione. Siffatta impostazione ha peraltro ricevuto, nel luglio del 2003 il contestuale ed autorevole beneplacito della Corte Costituzionale, intervenuta a sancire la risarcibilità del danno morale anche nei casi di colpa presunta, avendo affermato la Consulta, con la decisione n. 233/2003 un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., "tesa a ricomprendere nell'astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale, derivante da lesione di valori inerenti alla persona, e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima, sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico ( art. 32 cost.), sia infine, il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale), derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona".
Ed è proprio nel danno esistenziale che ha trovato il punto di sfogo principale il campo della tutela risarcitoria dei congiunti della vittima iniziale dell'illecito, e ciò non solo nelle ipotesi di eventi mortali, ma anche nelle varie fattispecie di sopravvivenza del familiare, potendosi configurare al riguardo un danno "riflesso" che i familiari della vittima principale subiscono per effetto delle lesioni, fisiche e/o psichiche occorse a quest'ultima. Ciò ricordato, in estrema sintesi, in merito all'ultima evoluzione giurisprudenziale in tema di c.d. danno esistenziale, non può che ritenersi la sussistenza del medesimo in capo, non solo, al piccolo M., nei cui confronti, come si è detto, può ritenersi sussistente in re ipsa, ma anche ai suoi genitori, odierni attori.
Rispetto agli attori ben può ipotizzarsi infatti la lesione di un diritto della personalità, come tale risarcibile anche indipendentemente dalla sussistenza di un fatto di reato, ricollegabile all'art. 2 Cost., per l'alterazione della relazione genitore e figlio e per l'appesantimento della funzione genitoriale. E ciò, come evidenziato dalla difesa degli attori, proprio sotto il profilo dello stravolgimento per sei anni della quotidianità dei medesimi e della serenità familiare, sia sotto il profilo della rinuncia in tema di relazioni sociali che le gravissime patologie del figlio comportava loro, sia, soprattutto, con riferimento alla necessità di una cura ed un'assistenza del figlio continua, in una situazione di perenne emergenza, caratterizzata da frequenti ricoveri, con scarsa prospettiva futura di guarigione o di semplice miglioramento. A ciò si aggiunga il danno morale ed esistenziale, subito dagli stessi in relazione alla morte del piccolo sopraggiunta in tale contesto già doloroso contesto familiare.
Ciò precisato, ed in applicazione delle tabelle di cui al decreto presidenziale del 20 gennaio 2004, opportunamente adattate al caso in esame, in considerazione della tragicità dell'evento per cui è causa, e che liquidano congiuntamente il danno esistenziale e morale in capo alle vittime c.d. "secondarie", si ritiene congruo rinascere e liquidare in capo a ciascuno degli attori a titolo di danno morale ed esistenziale per le lesioni sofferte dal figlio M. la somma, comprensiva degli accessori di legge ad oggi, di Euro 150.000,00, aumentata del 10% in ragione del tragico epilogo costituito dalla sopravvenuta morte del figlio, per un totale quindi pari ad Euro 165.000,000 ciascuno.
Per quanto attiene ai danni patrimoniali reclamati dagli attori, sicuramente riconoscile in punto an e congruo e pertanto equitativamente liquidabile in punto quantum appare l'importo richiesto dagli attori per spese funerarie e di tumulazione, pari ad Euro 5.000,00. Qui terminano tuttavia le pronunce di accoglimento delle domande attoree. Ed invero, per quanto attiene alle spese sostenute per cura ed assistenza del figlio, se appare certamente condivisibile il principio affermato dalla Suprema Corte con la decisione citata dalla difesa attorea, n. 177 del 22.2.2000, in virtù del quale non è esigibile un'indicazione analitica da parte dei genitori dell'entità delle spese affrontate per l'assistenza del figlio ridotto ad uno stato vegetativo, è tuttavia necessario ad avviso di chi scrive che la parte istante alleghi e fornisca almeno un principio di prova relativo all'effettivo avvenuto sostenimento di dette spese: allegazione e prova che è del tutto carente nel caso in esame.
La natura assistenziale dell'indennità di accompagnamento riconosciuta come pacificamente percepita dagli attori in favore del figlio, pur nel suo esiguo ammontare, è del resto finalizzata proprio a compensare il soggetto in favore del quale viene riconosciuta dall'impossibilità alla deambulazione ed al compimento degli atti quotidiani della vita: impossibilità di cui gli odierni attori hanno dovuto farsi carico. Non si ritiene inoltre che sia dovuto alcun risarcimento agli attori a titolo di lucro cessante per contrazione di reddito in favore del sig. S.L. e a titolo di lucro cessante e per perdita di chances di carriera a favore della signora M.F., essendo rimaste le rispettive domande del tutto sprovviste di supporto probatorio in punto an debeatur.
Da qui il rigetto delle rispettive domande azionate sul punto. Spettano infine agli attori gli ulteriori interessi legali, di natura corrispettiva, su tutte le somme liquidate, per tutti i titoli di danno sopra esaminati, e sulle relative rivalutazioni monetarie, dalla data della presente sentenza al pagamento.
Le spese di lite, liquidate in dispositivo, e quelle di C.T.U., liquidate con separato decreto, vanno integralmente poste a carico delle parti convenute soccombenti. La presente sentenza va dichiarata provvisoriamente esecutiva ex art. 282 c.p.c.


P.Q.M.
Il Giudice, definitivamente pronunciando, contrariis reiectis,

Pone definitivamente a carico dei convenuti le spese della c.t.u.
Dichiara la sentenza provvisoriamente esecutiva.
Così deciso in Genova il 24 settembre 2005.